I libri delle libriste dalla collezione Carminati.

di Ada De Pirro

C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?

La gioia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.

W. Szymborska, La gioia di scrivere,1967

Generi
Il dibattito sulla permanenza o meno della forma-libro classica nella diffusione della cultura contemporanea sembra non avere fine e ancora oggi è difficile, nonostante le molte analisi fatte, dare una definizione conclusiva al libro-di-artista in tutte le sue coniugazioni. Difficile quasi quanto cercare di determinare in maniera inconfutabile il sesso di un’opera.
A prima vista, sembra curiosa la coincidenza temporale che accomuna i primi tentativi di definizione dei due contesti. Quando all’inizio degli anni settanta si è iniziato a indagare da un lato i motivi di una differenza numerica così evidente tra i molti artisti-uomini che avessero ottenuto visibilità nel corso della storia rispetto alle poche artiste-donne (Nochlin 1971) e dall’altro il rapporto tra donna e linguaggio (Bentivoglio 1971), era già nato e adottato da molti, senza distinzione di genere, quello che sarebbe poi stato comunemente chiamato libro d’artista.

Questa forma di editoria alternativa va oltre la tradizionale definizione dei generi artistici e si presenta come il prodotto di un’epoca in cui l’esigenza di liberazione era forte, al di là e all’interno delle dinamiche tra i sessi. Nel territorio del libro d’artista, in tutte le sue coniugazioni, ogni carattere sembra sfumato a favore di uno sguardo più libero da pregiudizi. Lontano dai dibattiti che riguardano l’arte ‘ufficiale’ gestita da istituzioni pubbliche e private, questa forma d’arte apre prospettive diverse sulla creatività: un orizzonte centrato su un singolo aspetto, ma consapevole che lavorare in luoghi di margine come quello del libro ha più ampie possibilità di espressione e non deve rispondere a canoni prestabiliti ma, anzi, cercarne di nuovi e instabili.
Il libro d’artista sembra non chiedere luci sgargianti e presentazioni declamatorie, si dà come un oggetto da guardare e, se possibile, da sfogliare. Ognuno con una propria, specifica intelligenza, un suo perché dato dalla forma, dai materiali usati, dall’impaginazione e dalla tipografia. Può avere o no immagini, può invitare a essere scomposto e ricomposto, a essere letto tra le righe scritte su un supporto trasparente o a immaginare frasi cancellate. La vista e il tatto sono coinvolti, a volte anche l’olfatto per una appercezione sinestetica che è comunque un’esperienza nuova. Una varietas che promette ulteriori possibilità creative.

Le donne artiste, negli anni sessanta e poi oltre, giocando con la rivoluzionaria (ma non nuova) forma di editoria hanno colto un’opportunità. Il libro, oggetto simbolo di una cultura storicamente prerogativa maschile, diventa il luogo di una nuova ibridazione dei generi maschile e femminile, mossa dall’esigenza di liberare l’oggetto dal suo pesante carico simbolico. La manipolazione della forma-libro fu una delle possibilità di espressione del desiderio di libertà, anche provocatorio, che andava spesso in parallelo con sensibilità orientate politicamente, dove la circolazione di prodotti di «una specie di editoria fatta in casa, artigianale, più o meno clandestina, senza problemi di stile, ma immediata e tempestiva» (Miccini 1970) fatta di volantini, cartelli e ta-tze-bao, appelli e dispense, generava ‘quasi’ il sospetto nei confronti della carta stampata secondo i criteri tradizionali. Un lavoro di destrutturazione, dunque, che recuperava le prove futuriste di forme eccentriche sia dal punto di vista tipografico sia proprio della forma-libro, aprendolo a esperienze che diventeranno sempre più radicali.
Questa possibilità si andò maturando soprattutto tra gli artisti (e le artiste) che lavoravano già sul versante verbovisivo della poesia concreta e/o visiva o che vi si erano accostati solo temporaneamente. Questi artisti amavano (e amano) parole, frasi, alfabeti spesso coniugati in idiomi diversi, e poi segni di interpunzione, numeri e quant’altro composti a volte in configurazioni significanti, altre volte con esplicito interesse alla rappresentazione di un nulla, di un’assenza. Come già aveva detto nel 1925 Moholy-Nagy, «la tipografia è uno strumento di comunicazione», non più quindi solo da impiegare come «mezzo oggettivo, ma cercando di incorporarla in modo creativo nel contenuto con tutto il potenziale di azione della sua esistenza oggettiva» (Dematteis 1998).
Quando presenti, le immagini erano (e sono) prelevate da contesti diversi o create ex novo e messe in relazione con la parola per creare diversi e inaspettati livelli di senso.

Mirella Bentivoglio, presente in mostra come artista, come teorica ha tra l’altro creato il termine librismo che vuole segnalare una spinta a portare nel libro il mondo della comunicazione visiva, comprendendo nella categoria libri d’artista in forme ibridate con livre de peintre, cataloghi e monografie prodotti singolarmente e autoediti, manualmente, calcograficamente e tipograficamente, a tiratura limitata o senza numerazione (Bentivoglio 2004). L’artista e teorica distingue tra questi i «due emisferi del libro», trovando il libro-oggetto particolarmente adatto all’indagine sui caratteri espressivi del genere maschile e femminile, le cui scelte sono equiparate, secondo la studiosa, sotto il segno di una comune esperienza esistenziale ma che si distinguono per una tendenza da parte delle donne di portare nel libro « un’inconscia memoria della tradizione femminile; diaristica, tattile, tessile». Dal felice neologismo nasce il titolo della presente mostra che vede donne alle prese con il genere del libro d’arte e che vengono qui chiamate, appunto, libriste, in qualità di rappresentanti del genere femminile di questa particolare produzione che abbraccia almeno cinquanta anni di storia.

Gli aspetti femminili che pur si possono riscontrare in alcuni dei libri presenti in mostra non sembrano prevalere su un carattere generale che questo tipo di editoria, senza distinzioni, porta con sé. L’esperienza della creatività sembra con il libro d’artista superare le barriere tra creazione al maschile e creatività al femminile (Lista 2004) che almeno dal rinascimento sembra aver distinto la storia dell’arte.
Questa è forse una di quelle rare forme d’arte che si può definire androgina, secondo la ben nota definizione di Virginia Woolf, secondo cui «nell’uomo la parte femminile del cervello deve comunque avere un suo effetto; e anche la donna deve cercare di andare d’accordo con l’uomo che c’è in lei. Forse voleva dire questo Coleridge, quando osservò che una mente superiore è androgina. Ed è appunto quando ha luogo questa fusione che la mente diventa pienamente fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà» (Woolf 1929). Con questo non possiamo eludere il fatto che caratteri maschili e femminili si possano riscontrare anche in questa particolare idea di libro, ma questa forma sembra allontanare, almeno per un po’, dalle domande che ancora dopo tanti anni continuiamo a porci circa le ‘differenze’ tra arte al maschile e arte al femminile, sia dal punto di vista espressivo, sia da quello del riscontro pubblico e economico. E questo va stranamente contro i contenuti a volte fortemente orientati verso la marcatura al femminile di un confine che si trova in alcuni libri presenti anche in questa mostra. Le differenze con la produzione al maschile infatti, quando e se ci sono, vanno al di là delle forme adottate, dei materiali scelti, dei testi. È nel corpus di opere nel suo complesso che vanno cercate, se proprio vogliamo farlo.

Lea Vergine, la curatrice della mostra che strappò finalmente il velo che fino al 1980 aveva tenuta nascosta la parte femminile delle avanguardie artistiche, alla domanda: In che cosa si differenzia l’arte delle donne da quella degli uomini?, rispondeva: «Autoironia, sarcasmo, coraggio e ancora oggi lo si può pensare. E l’uso della memoria» (Vergine 2004).
Nelle opere presenti in mostra ci sembra di riscontrare le stesse qualità. A queste si potrebbe aggiungere anche una buona dose di attenzione alla musica e alla poesia, al ritmo, aspetto questo che sembra presente anche dove non sembra esserci. E poi la presenza del corpo, sottesa a tutte le opere dove viene esposto attraverso fotografie o disegni di mani, schiene, volti, occhi, seni, piedi. Ma il corpo è presente nella manualità delle opere e nella manipolazione dei caratteri tipografici anche se condotta con mezzi meccanici.

Ma l’aspetto che sembra prevalere è quello della memoria. La memoria è dopotutto una parola di genere femminile che appartiene antropologicamente alle donne. Tutto sembra essere orientato verso la trasmissione di una traccia, di un gesto, di un pensiero che nel complesso forma quello che è evidente anche in questo nucleo di opere, una memoria del fare, del percorrere, del rielaborare.
E a proposito di varietas, questi libri sorprendono per la molteplicità che dichiarano. Temi: poesia, racconto, saggio, diario, favola. Supporti: carta da ciclostile, da incisione, fotografica, tipografica, cartone. E poi acetato, spirali metalliche. Stampa: a mano o meccanica. Tecniche: grafiche, calcografiche, dattilografiche, tipografiche, industriali, ad acqua.
Le diverse nazionalità delle artiste presenti dimostrano quanto il linguaggio variegato dell’insieme non conosca confini geografici, ma accomuni pittrici scultrici incisori performer critiche poetesse più famose a quelle meno note, con semplicità e senza clamori.
Non sappiamo rispondere dunque con certezza alle domande poste ma possiamo forse pensare che tutto ciò risponda a una volontà, un desiderio a volte dolorosamente compiuto, dove prevale, su tutto la gioia di scrivere./ Il potere di perpetuare./ La vendetta d’una mano mortale.

Continuità
«C’è continuità tra un libro e l’altro, nonostante la nostra abitudine di giudicarli separatamente» (Woolf 1929). Una collezione è un insieme che riflette scelte e gusti del collezionista. Una collezione di libri al femminile ha un suo carattere specifico, basato prima di tutto su un proprio livello di continuità, non solo perché libri scritti, pensati, immaginati, da donne ma perché tessono, l’uno con l’altro, una misteriosa trama di senso da cercare tra i frammenti di un linguaggio che appartiene, sì, a tutti, ma che può essere più o meno segretamente, acquisito e fatto proprio. Il dialogo che si viene a creare tra i libri al femminile presenti in mostra è avviato dal collezionista milanese Marco Carminati che li ha selezionati tra i molti della sua raccolta.
Cosa spinge un collezionista a mettere in mostra i propri libri e cosa a sceglierne alcuni come rappresentativi di una specifica coniugazione al femminile del genere libro-di-artista?
La prima risposta, spontanea, è stata: Perché le ho trovate. La seconda: Perché i libri di donne hanno una loro anima in quanto le donne si identificano sempre nel loro lavoro. La terza: Perché è una sfida a riconoscere in essi i caratteri femminili.

Esporre i propri libri è un gesto di condivisione e apre a domande, chiede un confronto. Non è facile porre domande e ancor meno, a volte, rispondere. Il margine di dubbio sembra insostenibile. Ma è importante che esistano luoghi, come le biblioteche, dove questo si possa ancora fare.

Il libro come oggetto anomalo, anche

di Paolo Albani

Considerata nella sua globalità, la collezione del Signor José eccedeva di gran lunga il centinaio, ma per lui, come del resto per l’autore delle antologie di elegie e di sonetti, il numero cento era una frontiera, un limite, un nec plus ultra, o, per dirla con termini banali, come una bottiglia da un litro che, per quanto ci si provi, non potrà mai contenere più di un litro di liquido.

José Saramago, Tutti i nomi

La scelta di cento libri dalla bella collezione di Marco Carminati mi ha sollecitato queste considerazioni-riflessioni sul libro-oggetto.

«Un libro, qualunque libro, è per noi un oggetto sacro; già Cervantes, che forse non ascoltava tutto quel che diceva la gente, leggeva perfino “le carte strappate nella strada”»[1]. La sacralità del libro – lo sanno bene i bibliofili la cui ragione di vita si condensa nella frase di Mallarmé «tutto al mondo esiste per far capo a un libro» – si esprime anche attraverso la sua forma, il suo aspetto fisico, la sua corporalità.
«Quando le mie mani scelgono un libro da portare a letto o sulla scrivania, per passare il tempo in treno o per fare un regalo,» – scrive Alberto Manguel, noto in Italia soprattutto per un bellissimo Manuale dei luoghi fantastici, scritto in collaborazione con Gianni Guadalupi – «ne prendono in considerazione non solo il contenuto, ma anche la forma. A seconda dell’occasione e del luogo in cui voglio leggere, le mie preferenze andranno a qualcosa di piccolo e grazioso, oppure di grande e sostanzioso»[2].
La forma del libro ne valorizza il contenuto. Una delle figure più note e affascinanti di bibliofilo prodotte in campo letterario è il duca Jean Des Esseintes, trentenne anemico e nevrastenico votato fin da giovane agli appagamenti estetici, protagonista del romanzo Controcorrente (1884) di Joris-Karl Huysmans. A proposito di un’edizione delle opere di Baudelaire posseduta da Des Esseintes scrive Huysmans: «Questa edizione in unico esemplare, stampata nel nero vellutato dell’inchiostro di China, era stata vestita al di fuori e ricoperta dentro d’una autentica meravigliosa pelle di scrofa: scelta fra mille, color carne; picchiettata al posto delle setole e adorna di merletti neri impressi a freddo, assortiti con squisito gusto da un autentico artista. Quel giorno Des Esseintes tolse dallo scaffale l’impareggiabile volume. Se lo palpeggiava religiosamente; si rileggeva poesie che, in quella semplice ma inestimabile cornice, gli parevano più inebrianti del solito»[3]. In modo chiaro qui si mette in risalto che è la forma del libro, la sua «inestimabile cornice», a rendere «più inebrianti del solito» le poesie di Baudelaire.
Nelle «Istruzioni per l’uso» poste a introduzione di Cents mille milliards de poèmes (1961), Raymond Queneau confessa di essersi ispirato non ai giochi surrealisti tipo cadavere squisito, ma a un libro per bambini intitolato Têtes Folles, libro le cui pagine sono divise in tre strisce separabili: sulla striscia in alto è disegnata la testa di un personaggio, al centro il busto e in basso le gambe; agendo sulle strisce si ottengono combinazioni di figurine con teste e abiti differenti. L’operetta di Queneau permette a chiunque di comporre a piacimento centomila miliardi di sonetti, naturalmente tutti quanti regolari. E questo in ragione del fatto che Queneau ha scritto dieci sonetti con le stesse rime e con una struttura grammaticale tale che ogni verso dei singoli sonetti è intercambiabile con ogni altro verso situato nella stessa posizione. Per ciascun verso si avranno così dieci possibili scelte indipendenti; dato che i versi sono 14, si avranno in totale 1014 sonetti, cioè centomila miliardi di poesie. La particolarità di questa specie di macchina per fabbricare poesie è che le pagine del libro – un vero e proprio libro oggetto – sono formate da una serie di striscioline svolazzanti su cui è riprodotto il verso di un sonetto, di modo che, alzando a sua discrezione le striscioline, il lettore crea il suo personale sonetto.
Ideati per bambini dai 3 ai 6 anni sono I Prelibri (1980) di Bruno Munari. Si tratta di dodici libretti di carta, di cartoncino, di cartone, di legno, di panno, di panno spugna, di friselina, di plastica trasparente, ognuno rilegato in modo diverso; su ogni libretto un unico titolo: libro. Nelle intenzioni di Munari questi libretti vogliono mettere i bambini in condizione di familiarizzarsi con il libro come oggetto, di conoscerlo come strumento di cultura o di gioco poetico, di assimilare quella conoscenza che facilita l’esistenza. Il bambino deve memorizzare che il libro è una cosa piacevole sotto tutti i sensi: vista, tatto, peso, materiale, ecc. Dal 1949 Munari aveva iniziato a creare una serie di Libri illeggibili, libri senza testo, ma pieni di comunicazione visiva e tattile. Questi libri comunicano qualcosa attraverso la natura della carta, lo spessore, la trasparenza, il formato delle pagine, il colore della carta, la texture (trattamento per rendere ruvida una superficie liscia), la morbidezza o la durezza, il lucido e l’opaco, le fustellature e le piegature. Un libro illeggibilecomunica se stesso e non un testo che gli è stato stampato sopra: ad esempio, fa notare Munari, un libro di carta da lucido, quella usata da architetti e ingegneri per i loro progetti, dà un senso di nebbia: sfogliando quelle pagine è come entrare in luogo avvolto nella nebbia.
Anche i libri ri-creativi di Munari, come i Cents mille milliards de poèmes di Queneau, si ispirano a un principio di interattività: un «libro illeggibile si può usare aprendo le pagine a caso, cominciando dove si vuole, andare avanti e tornare indietro, per comporre e scomporre ogni possibile combinazione»[4].
Sotto questa luce i libri di Munari si presentano come dei veri e propri oggetti d’arte, e in quanto tali appartengono al genere dei libri-oggetto. La storia del libro-oggetto o libro-scultura o scultolibro è abbastanza recente. Com’è noto essa ha inizio con le avanguardie storiche nei primi anni del Novecento, in particolare con i futuristi. In uno scritto del 1910, La guerra elettrica, Filippo Tommaso Marinetti afferma che gli uomini del futuro potranno scrivere su «libri di nickel». E ancora nel manifesto L’immaginazione senza fili e le parole in libertà (1913) precisa: «Io inizio una rivoluzione tipografica, diretta contro la bestiale e nauseante concezione del libro di versi e dannunziana, la carta a mano seicentesca, fregiata di galee, minerve e apolli, di iniziali rosse e ghirigori, ortaggi mitologici, nastri da messale, epigrafi e numeri romani. Il libro deve essere l’espressione futurista del nostro pensiero futurista».
In una lettera a Marinetti del 1915 Corrado Govoni scrive: «Perché non fare dei libri che si aprono come organetti macchine fotografiche ombrellini ventagli? Sarebbero oltremodo adatti per le parole in libertà. Io sono oltremodo entusiasta di quest’idea e tu mi dovresti accontentare perché anche tu sei arcistufo e nauseato delle forme bestiali dei libri comuni».
L’auspicio di Govoni non viene disatteso: fra le numerose forme stravaganti che il libro-oggetto prende nel corso della sperimentazione artistica sul libro, soprattutto a partire dagli anni sessanta del xx secolo, praticata da movimenti quali Fluxus, la Poesia visiva e concreta, la Narrative art e altri ancora, troviamo un libro a forma di ventaglio opera dell’artista americano di origine ceca Barton Lidicé Beneš, un esemplare unico, come sono spesso i libri-oggetti, intitolato Aloha Evelyn (selected parts of letters from Aunt Evelyn, volume 58) (1981).
Non più «portatore di informazioni», bensì «produttore di sensazioni», il libro-oggetto sollecita i sensi: vista, tatto, olfatto, gusto, udito. I materiali usati per realizzarlo sono i più disparati: marmo, onice, legno, stoffa, ferro, plastica, vetro, terracotta, sughero, tufo, cemento armato, ecc.
Le manipolazioni – o forse si dovrebbe dire meglio i maltrattamenti, le angherie, i soprusi – cui il libro è sottoposto dagli artisti che ne contestano il più delle volte il decadimento a merce nella società capitalistica sono molteplici, in certi casi fortemente lesive della sua integrità: ci sono libri-oggetto bruciati, tagliati, accartocciati in più punti, con pagine strappate, altri che portano i segni dei proiettili di pistola che li hanno attraversati (Sette colpi di pistola di Marcello Diotallevi). Un modo per annullare la comunicabilità del libro legata alle parole stampate sulle proprie pagine è di renderlo illeggibile, in senso letterale, fenomeno che lo trasforma da luogo di trasmissione di idee e di esperienze umane in un oggetto dalla forma bizzarra, in un ossimoro estetico. Le tecniche per attuare questo sadico proposito di azzeramento linguistico sono diverse: si va dalla cancellazione di un testo esistente (Emilio Isgrò) alla sottrazione dello spazio dedicato alla stampa lasciando solo i margini bianchi delle pagine (Il libro dimenticato a memoria di Vincenzo Agnetti); dall’uso di grafie incomprensibili, enigmatiche (le «Eigenschriften», scritture asemantiche di Irma Blank) alla raffigurazione del linguaggio con elementi materici quale il filo di cotone (Maria Lai) o con dei buchi al posto delle parole (come nel libro di marmo della Mirella Bentivoglio Il cacio è il mondo, i buchi le parole).
Un esempio significativo di libro non leggibile è Life and Work (1962) di Piero Manzoni, un libro di sole pagine bianche di cui esiste una versione del 1969 stampata da Jes Petersen a Berlino in 100 esemplari, fatta di soli fogli trasparenti.
Fra le scelte drastiche e suggestive di illeggibilità ci sono quelle architettate da Mario Mariotti con il suo Libro circolare (1968) che ha il dorso completamente circolare, cosa che ne rende problematica la lettura, e da Maurizio Nannucci il cui libro Universum (1969) ha una rilegatura in pelle blu che si avvolge sulle pagine del libro stesso dando origine a due dorsi.
Abbiamo detto che un libro-oggetto può essere fatto dei materiali più strani, inconsueti: quando si tratta di sostanze commestibili, il libro diventa mangiabile. «Un editore tedesco», afferma Matteo Cuomo, «ci ha promesso che fra un paio d’anni metterà in vendita un giornale mangiabile. Invece della carta, egli userebbe una pasta nutriva e gradevole che si presta assai all’impressione, e l’inchiostro sarebbe surrogato da uno sciroppo deliziosamente profumato»[5]. L’atto o la consuetudine di mangiare i libri (cartacei) si chiama bibliofagia. I bibliofagi possono essere distinti in due categorie: i bibliofagi per scelta deliberata e quelli per costrizione, cioè che vengono puniti da un’autorità a mangiare un libro[6]. Nel 1976 Carlo Belloli ha realizzato dei poemi commestibili offerti dallo studio Santandrea di Milano in occasione dell’esposizione «Omaggio a Carlo Belloli precursore della poesia visuale e concreta». Questi poemi, scrive Belloli, «potevano considerarsi “pagine d’artista” e vennero divorati dagli invitati alla vernice della mostra come parole di dessert»[7].
Forse però, in conclusione, la forma più bizzarra che un libro-oggetto può assumere è quella che aderisce, si associa al corpo umano, è il libro a forma di uomo. Racconta Manguel: «Quando avevo dieci o undici anni, a Buenos Aires, un insegnante mi dava lezioni private di tedesco e di storia europea. Per migliorare la mia pronuncia, mi faceva imparare a memoria poesie di Heine, Goethe e Schiller, e la ballata di Gustav Schwab Der Ritter und der Bodensee […] Mi piaceva imparare le poesie, ma non capivo di quale utilità avrebbero potuto essermi. «Ti terranno compagnia il giorno in cui non avrai nessun libro da leggere» disse il mio maestro. Poi mi raccontò che suo padre, ucciso a Sachsenhausen, era stato un celebre studioso e sapeva a memoria parecchi classici; quando era in campo di concentramento si era offerto come “biblioteca” affinché i suoi compagni di prigionia potessero “leggere”. Immaginavo il vecchio in quel luogo implacabile, opprimente, disperato, mentre qualcuno gli si avvicinava per chiedergli Virgilio o Euripide, aprire se stesso a una certa pagina e recitare le antiche parole per i suoi lettori senza libri»[8].

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[1] Jorge Louis Borges, «Del culto dei libri», in Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, volume primo, Mondadori, Milano, 1984, p. 1010.
[2] Alberto Manguel, Una storia della lettura, Mondadori, Milano, 1997, p. 135.
[3] Joris-Karl Huysmans, Controcorrente, Garzanti, Milano, 1982, pp. 146-147.
[4] Bruno Munari, Da cosa nasce cosa, Laterza, Roma-Bari, 19993, p. 222.
[5] Matteo Cuomo, Nel mondo dei libri: bizzarrie, Quinteri, Milano, 1912, pp. 375-376.
[6] C’è una voce dedicata a questa stravagante passione nel Vocabolario bibliografico di Giuseppe Fumagalli, edito da Olschki, Firenze, 1940, p. 48.
[7] Gino Gini e Silvio Zanella, a cura di, Pagine e dintorni. Libri d’artista, Civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate, Gallarate, 1991, p. 15.
[8] Alberto Manguel, Una storia della lettura, cit. , p. 74.

Cento + 1 libri d’artista”: +1 è il simbolo delle opportunità

di Dino Silvestroni
marco 30 Una Opportunità E Quella Che Una collezione sconosciuta puo offrire.
La collezione riunita, non con Semper Metodo Rigoroso, Mostra le Motivazioni Che Hanno accostato ONU Libro annuncio ONU Altro e svela Una storia Che ci sorprende.
La sorpresa, complice il Mutare dei Tempi, Regala una Raccolta di Titoli criticamente Validi ma non Semper sufficientemente valutati e Offre l’Opportunità di visionare Libri Troppo presto o Troppo Spesso dimenticati.
La collezione rappresenta ONU caotico incontro di Critica e Sensazioni, tortora Il Piacere di esporre E PARI AL Piacere di dialogare.
Non SI Tratta di esercitare in Proprio il mestiere di critico o di Tanto Menone quello di gallerista, ma di trasformare QUALCHE scaffale della Propria della Biblioteca in Una zona Ampia di Lettura.
Vieni Tutti I Viaggi iniziano con il Primo Passo, cosi Proponiamo questa Mostra Venire un’opportunità in piu di Leggere Quel variegato e Complesso Mondo del Libro d’artista.

Il silenzio dei libri

di Dino Silvestroni I muri della menteI libri esposti riescono in maniera silenziosa, ma non nascosta ad avere una comune capacità che può essere individuata come segnale del continuo mutare della lettura. Questo segnale non è facile da catalogare, perchè sempre in movimento, una cartina di tornasole che reagisce chimicamente, senza sapere quale colore manifesterà. Diversi libri d’artista si “leggono” guardandoli semplicemente, alcuni con l’apertura casuale delle pagine, altri semplicemente toccandoli. All’interno di queste letture il silenzio e la illeggibilità come estensione della lettura a tutte le componenti materiali del libro. Silenzio e illeggibilità non solo elementi esterni o contrari alla lettura: sono elementi che segnalano il continuo rinnovarsi e modificarsi non solo della lettura ma anche della struttura materiale del libro. Questo denominatore che accomuna i libri d’artista rappresenta infatti una impaginazione che unisce alla capacità di segnalare le varie modificazioni la forza di non restare imbrigliato in nessuna linea evolutiva gutenberghiana. Il libro d’artista procede con un suo specifico raccontare, una sorta di trama che non si nasconde solo nel silenzio assente delle parole o nelle rumorose illustrazioni, ma si evidenzia nel lavoro e nei materiali usati per produrlo. Il tutto diventa elemento alfabetico, con una continua raffinazione della funzione comunicativa. Questo permette ad ogni libro d’artista di essere singolarmente momento verificatore dei livelli di lettura e, perché no, della rilettura. La peculiare capacità di essere “segnalibro” della lettura, non una lettura, è indicata in modo preciso dalla pagina di Mirella Bentivoglio che titolava il suo catalogo: “TRA linguaggio e immagine” (Bentivoglio 1976) come indicazione di una collocazione della ricerca artistica TRA i molti alfabeti. Oggi quel TRA può essere collocato fra la pesantezza della carta e la leggerezza del bit. Il silenzio delle biblioteche monastiche si ritrova nella silenziosa lettura in metropolitana e si è trasformato in componente materiale del libro elettronico dove la pagina non si sfoglia ma si sostituisce. GeiggerCome nelle partiture musicali di John Cage il silenzio non è l’assenza del rumore, ma un elemento della esecuzione. Ma forse noi lettori siamo il silenzio del libro: “Ognuno/legge un libro/ ed è subito sera.”(Niccolai 2012). Mirella Bentivoglio, Tra linguaggio e immagine, 1976; Giulia Niccolai, Poesie complete. Firenze, le lettere 2012.