SFOGLIARTE. Libri d’artista dalla collezione di Marco Carminati

 

curatrice dell’allestimento Federica Oronti

Biblioteca cantonale di Bellinzona

6 settembre – 4 ottobre 2014

In mostra, ordinati cronologicamente nel catagolo, libri di Man Ray, Daniel Spoerri, Joseph Beuys, Giuseppe Chiari, Michelangelo Pistoletto, Mirella Bentivoglio, Ugo Nespolo, Carlo Belloli,  Giovanna Sandri, e altri.

scarica il catalogo

Compagni di viaggio. I libri d’artista della collezione di Davide Servadei

Compagni di viaggio. I libri d’artista della collezione di Davide Servadei

 

Ogni collezione di libri ha una propria unicità. Sono il percorso del collezionista, le ragioni delle sue scelte e soprattutto la passione che le anima a marcare le differenze.

Le caratteristiche che distinguono la raccolta di Davide Servadei da altre esperienze bibliofile sono numerose. Innanzitutto la specificità dei volumi prescelti: libri d’artista, la maggior parte dei quali prodotti in Italia e stampati tra gli anni Sessanta e oggi. Una nicchia di interesse che nel nostro Paese recentemente ha conquistato l’attenzione della critica – sono state realizzate infatti numerose piccole e grandi mostre e diverse pubblicazioni – ma non quella del collezionismo privato e pubblico. A rendere questo ambito poco frequentato da chi colleziona libri sono probabilmente due fattori. Il primo riguarda il numero di volumi ancora in circolazione: il libro era infatti visto dagli artisti, in particolare negli anni Sessanta e Settanta, come ideale mezzo di diffusione di idee e progetti, perciò nonostante venisse spesso auto-prodotto o pubblicato da piccole case editrici indipendenti, veniva stampato in tirature abbastanza alte, per permetterne la circolazione. La quantità di copie ancora dispinibili scoraggia il collezionismo d’investimento che punta alla rarità e al conseguente valore di mercato.

Il secondo fattore, e probabilmente il più determinante, riguarda la natura stessa del libro d’artista. La critica non è ancora riuscita a darne una definizione che venga comunemente accettata, questa forma espressiva sfugge infatti a rigide catalogazioni e non sempre è facilmente riconoscibile. In alcuni casi il libro d’artista può essere scambiato da un occhio poco allenato per una monografia, un catalogo di mostra, un saggio o addirittura un romanzo. Per distinguerlo non basta sapere se l’artista é stato protagonista delle varie fasi di ideazione e progettazione del volume, il vero discrimine é la sua intenzione di produrre attraverso il mezzo libro un’opera d’arte. Chi colleziona libri d’artista deve quindi sviluppare una sensibilità specifica e avere una profonda conoscenza delle vicende artistiche degli ultimi cinquant’anni.

Davide Servadei diventa un raffinato conoscitore di libri d’artista grazie alle possibilitá di incontro e confronto diretto con gli artisti offerte dalla sua professione. Discendente di Riccardo Gatti, Servadei lavora fino dalla metà degli anni ottanta nella Bottega di arte ceramica Gatti di Faenza, che oggi dirige. Il laboratorio è stato, fino dalla sua fondazione nel 1928, un punto di riferimento per molti artisti a partire dai futuristi. Gatti ha infatti realizzato, oltre a propri modelli di ispirazione futurista, tra cui il celebre vaso “Fortuna”, ceramiche di Giacomo Balla, Benedetta, Mario Guido Dal Monte e Remo Fabbri. Dopo l’esperienza futurista la Bottega Gatti ha portato avanti, nel corso degli anni, la produzione di ceramiche realizzate in collaborazione con artisti. Sono passati dai laboratori di Faenza alcuni dei nomi più significativi del panorama italiano: da Alberto Burri a Enrico Baj, da Giosetta Fioroni ad Aldo Mondino, da Mimmo Paladino a Luigi Ontani, oltre a esponenti delle avanguardie internazionali, tra i quali Arman, Hsiao Chin, Cèsar, Ilya Kabakov, Mike Kelly e Roberto Sebastian Matta.

La passione bibliofila di Servadei nasce nei primissimi anni Novanta proprio da un incontro legato alla ceramica. Tutto prende il via grazie a una collaborazione con Pablo Echaurren, artista e appassionato collezionista di libri futuristi, che insieme alla moglie e studiosa di futurismo Claudia Salaris, possiede la più importante ed esaustiva collezione privata di libri e riviste futuriste in Italia. Echaurren lo incoraggia a ricercare negli archivi della bottega documenti riguardanti il rapporto tra Riccardo Gatti e il movimento guidato da Marinetti. Servadei, già attento catalogatore dei documenti dell’archivio aziendale, non ritrova, compiendo un ulteriore spoglio dei materiali, altro che qualche bozzetto per ceramica di Balla. L’incontro con Echaurren lo fa comunque avvicinare all’universo dell’editoria futurista per il quale prova un’immediata fascinazione. Già collezionista di ceramiche, decide così di iniziare a raccogliere anche libri e riviste. Una delle acquisizioni più significative di questo periodo è il celebre Zang Tumb Tuuum di Marinetti, primo esempio di libro parolibero e colonna portante di ogni collezione di libri futuristi.

Il passaggio dal libro futurista a quello d’artista avviene a questo punto in modo del tutto naturale, Servadei intuisce infatti la consequenzialità delle due esperienze e decide di iniziare a documentare quella che sente più vicina. Gli artisti che il collezionista incontra sono un elemento fondamentale per lo sviluppo della raccolta, non solo perché spesso sono loro stessi a contribuire alla sua crescita regalando le proprie opere, ma anche perché diventano fin dall’inizio il filo rosso che guida le acquisizioni. Servadei decide infatti di cercare e comprare principalmente libri di autori da lui conosciuti e frequentati. La collezione diventa quindi una sorta di diario che parla di persone, incontri e momenti. I volumi scelti sono la testimonianza di un percorso privato ma capace di restituire una visione d’insieme della pratica del libro d’artista negli ultimi cinquant’anni.

La mostra 100 + 1 Libri d’Artista, dedicata alla collezione di Davide Servadei, attraverso un’attenta selezione delle opere, vuole restituire proprio questo spirito, mettendo in primo piano alcune figure e individuando alcune tendenze alle quali Servadei si è dedicato con piú convinzione.

Uno dei nuclei di interesse piú consistenti della raccolta è costituito dalle pubblicazioni prodotte dagli esponenti delle ricerche verbo-visuali negli anni Sessanta e Settanta. Tra gli esempi della vastissima produzione a stampa del movimento emerge per completezza all’interno della collezione l’incredibile esperienza di Geiger, casa editrice nata negli anni Sessanta per iniziativa di Adriano Spatola e del fratello Maurizio. Servadei si appassiona all’avventura editoriale degli Spatola grazie all’incontro con Giuliano Della Casa. Pittore, ceramista, profondo conoscitore e frequentatore di letterati e poeti, Della Casa è autore di raffinati volumi e di alcuni dei più bei libri d’artista pubblicati da Geiger. Ricordiamo Motopoem (1971), con fotografie di Franco Vaccari, e Giuliano Della Casa Carlo Cremaschi (1969), realizzato in collaborazione con Carlo Cremaschi. Frequentando la fornitissima biblioteca dell’artista Servadei ha l’occasione di approfondire il panorama della poesia sperimentale, concreta e visuale, di sfogliare pubblicazioni rarissime e di conoscere alcuni dei protagonisti di queste vicende. Da qui parte un lavoro di ricerca paziente e meticolosa per ricostruire le collane di libri pubblicate da Geiger, le uscite dell’antologia sperimentale “Geiger” e della rivista di poesia “Tam Tam”.

Tra le esperienze editoriali coeve, Servadei si interessa anche all’area concettuale. Conosce in particolare gli esponenti dell’Arte povera: Luciano Fabro, Jannis Kunellis, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio, e si avvicina alle loro pubblicazioni attraverso Gian Enzo Sperone, non solo gallerista torinese e sostenitore del gruppo, ma anche editore di alcuni dei piú significativi libri d’artista prodotti dai poveristi. In collezione sono presenti volumi come Le ultime parole famose di Pistoletto (In proprio, Torino 1967), Svolgere la propria pelle di Penone (Sperone, Torino 1971), Ennesima. Appunti per la descrizione di sei disegni datati 1975 di Paolini (Yvon Lambert, Parigi 1975) e La via del sangue di Kounellis (Galleria La Salita, Roma 1973). Facendo una sorta di strappo alla regola, Servadei decide di raccogliere anche le pubblicazioni di Alighiero Boetti, autore imprescindibile nella storia del libro d’artista che ha avuto occasione di conoscere personalmente ma non per motivi professionali (i suoi lavori non sono quindi presenti in mostra). Tra le pubblicazioni di Boetti, Servadei entra in possesso anche del raro (I Mille Fiumi). Classifing the thousand longest rivers in the world (In proprio, Roma – Ascoli Piceno 1977), grazie ad un omaggio dell’artista Giosetta Fioroni, che contribuisce con diversi altri libri alla raccolta.

Nella collezione gli anni Ottanta sono invece testimoniati in particolare dalle pubblicazioni della Transavanguardia. Servadei approfondisce questo ambito grazie ad alcune collaborazioni prima fra tutte quella molto prolifica e di grande qualità con Mimmo Paladino che dura da quasi 25 anni. Realizza diversi progetti in ceranica anche con Enzo Cucchi, Sandro Chia e Nicola De Maria, molti dei quali realizzati su committenza del gallerista ed editore modenese Emilio Mazzoli, con il quale Servadei condivide la passione bibliofila. Tra i tanti libri presenti in collezione ricordiamo un’operazione singolare, ma che senz’altro si può ascrivere nell’ambito del libro d’artista: si tratta del catalogo della precoce mostra Jonge Italianen, siamo solo nel 1980, che riunisce a Basilea, Essen e Amsterdam i lavori degli artisti Chia, Clemente, Cucchi, De Maria, Ontani, Paladino e Tatafìore. La pubblicazione, che consiste in una scatola contenete 7 piccoli libri, ognuno realizzato da uno dei partecipanti, non solo documenta all’interno della collezione una delle primissime esperienze espositive ed editoriali del gruppo di artisti patrocinato da Bonito Oliva, ma serve anche a completare la bibliografia di Luigi Ontani.

Ontani (presenza in realtá transitoria all’interno della Transavanguardia), che dal 1990 affida la realizzazione della sua straordinaria produzione di opere in ceramica alla Bottega Gatti, pubblica libri d’artista con costanza lungo tutta la sua carriera. Nei volumi di Ontani, spesso editi in occasione di mostre, rivivono appieno l’estetica, i colori e l’ironia del suo universo creativo. L’artista segue con estrema cura non solo i propri libri d’artista, ma tutte le pubblicazioni che lo riguardano, nelle quali infatti è sempre riconoscibile la sua impronta. Fanno parte della collezione il piccolo e prezioso Acervus (Edition Dacic, Tübingen 1978), raccolta di immagini fotografiche che ritraggono l’artista nelle vesti di figure mitiche o storiche o nel corso di performance, e Alnus Aurea, stampato in Giappone nel 1990 e poi ritirato dal mercato perché censurato.

A differenza di molte collezioni di libri d’artista che si focalizzano solo sugli “anni eroici” di questa pratica, quella di Davide Servadei ne esplora anche gli sviluppi. Nella raccolta sono presenti infatti interessanti esempi contemporanei di questa espressione, per ciò che riguarda sia il panorama italiano sia quello internazionale. Tra i volumi stampati nell’ultima decade si possono ricordare Tanatosi (Hopefulmonster, Torino 2006) di Marzia Migliora e Leben und werk von Charles Rosenthal 1898-1933 (Stroemfeld, Francoforte 2000) di Ilya Kabakov.                                                                                                                     Questa apertura alle manifestazioni piú contemporanee dà ulteriormente l’idea di come questa collezione sia una creatura viva e in evoluzione, come lo sono del resto anche le relazioni tra gli esseri umani. Servadei continua infatti ad acquistare libri e a riceverne in dono; ogni volume va a documentare un nuovo incontro o a completare un discorso giá iniziato, descrivendo attraverso tanti frammenti di racconto la sua esperienza personale nel mondo dell’arte.

 

 

 

 

 

 

I libri delle libriste dalla collezione Carminati.

di Ada De Pirro

C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?

La gioia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.

W. Szymborska, La gioia di scrivere,1967

Generi
Il dibattito sulla permanenza o meno della forma-libro classica nella diffusione della cultura contemporanea sembra non avere fine e ancora oggi è difficile, nonostante le molte analisi fatte, dare una definizione conclusiva al libro-di-artista in tutte le sue coniugazioni. Difficile quasi quanto cercare di determinare in maniera inconfutabile il sesso di un’opera.
A prima vista, sembra curiosa la coincidenza temporale che accomuna i primi tentativi di definizione dei due contesti. Quando all’inizio degli anni settanta si è iniziato a indagare da un lato i motivi di una differenza numerica così evidente tra i molti artisti-uomini che avessero ottenuto visibilità nel corso della storia rispetto alle poche artiste-donne (Nochlin 1971) e dall’altro il rapporto tra donna e linguaggio (Bentivoglio 1971), era già nato e adottato da molti, senza distinzione di genere, quello che sarebbe poi stato comunemente chiamato libro d’artista.

Questa forma di editoria alternativa va oltre la tradizionale definizione dei generi artistici e si presenta come il prodotto di un’epoca in cui l’esigenza di liberazione era forte, al di là e all’interno delle dinamiche tra i sessi. Nel territorio del libro d’artista, in tutte le sue coniugazioni, ogni carattere sembra sfumato a favore di uno sguardo più libero da pregiudizi. Lontano dai dibattiti che riguardano l’arte ‘ufficiale’ gestita da istituzioni pubbliche e private, questa forma d’arte apre prospettive diverse sulla creatività: un orizzonte centrato su un singolo aspetto, ma consapevole che lavorare in luoghi di margine come quello del libro ha più ampie possibilità di espressione e non deve rispondere a canoni prestabiliti ma, anzi, cercarne di nuovi e instabili.
Il libro d’artista sembra non chiedere luci sgargianti e presentazioni declamatorie, si dà come un oggetto da guardare e, se possibile, da sfogliare. Ognuno con una propria, specifica intelligenza, un suo perché dato dalla forma, dai materiali usati, dall’impaginazione e dalla tipografia. Può avere o no immagini, può invitare a essere scomposto e ricomposto, a essere letto tra le righe scritte su un supporto trasparente o a immaginare frasi cancellate. La vista e il tatto sono coinvolti, a volte anche l’olfatto per una appercezione sinestetica che è comunque un’esperienza nuova. Una varietas che promette ulteriori possibilità creative.

Le donne artiste, negli anni sessanta e poi oltre, giocando con la rivoluzionaria (ma non nuova) forma di editoria hanno colto un’opportunità. Il libro, oggetto simbolo di una cultura storicamente prerogativa maschile, diventa il luogo di una nuova ibridazione dei generi maschile e femminile, mossa dall’esigenza di liberare l’oggetto dal suo pesante carico simbolico. La manipolazione della forma-libro fu una delle possibilità di espressione del desiderio di libertà, anche provocatorio, che andava spesso in parallelo con sensibilità orientate politicamente, dove la circolazione di prodotti di «una specie di editoria fatta in casa, artigianale, più o meno clandestina, senza problemi di stile, ma immediata e tempestiva» (Miccini 1970) fatta di volantini, cartelli e ta-tze-bao, appelli e dispense, generava ‘quasi’ il sospetto nei confronti della carta stampata secondo i criteri tradizionali. Un lavoro di destrutturazione, dunque, che recuperava le prove futuriste di forme eccentriche sia dal punto di vista tipografico sia proprio della forma-libro, aprendolo a esperienze che diventeranno sempre più radicali.
Questa possibilità si andò maturando soprattutto tra gli artisti (e le artiste) che lavoravano già sul versante verbovisivo della poesia concreta e/o visiva o che vi si erano accostati solo temporaneamente. Questi artisti amavano (e amano) parole, frasi, alfabeti spesso coniugati in idiomi diversi, e poi segni di interpunzione, numeri e quant’altro composti a volte in configurazioni significanti, altre volte con esplicito interesse alla rappresentazione di un nulla, di un’assenza. Come già aveva detto nel 1925 Moholy-Nagy, «la tipografia è uno strumento di comunicazione», non più quindi solo da impiegare come «mezzo oggettivo, ma cercando di incorporarla in modo creativo nel contenuto con tutto il potenziale di azione della sua esistenza oggettiva» (Dematteis 1998).
Quando presenti, le immagini erano (e sono) prelevate da contesti diversi o create ex novo e messe in relazione con la parola per creare diversi e inaspettati livelli di senso.

Mirella Bentivoglio, presente in mostra come artista, come teorica ha tra l’altro creato il termine librismo che vuole segnalare una spinta a portare nel libro il mondo della comunicazione visiva, comprendendo nella categoria libri d’artista in forme ibridate con livre de peintre, cataloghi e monografie prodotti singolarmente e autoediti, manualmente, calcograficamente e tipograficamente, a tiratura limitata o senza numerazione (Bentivoglio 2004). L’artista e teorica distingue tra questi i «due emisferi del libro», trovando il libro-oggetto particolarmente adatto all’indagine sui caratteri espressivi del genere maschile e femminile, le cui scelte sono equiparate, secondo la studiosa, sotto il segno di una comune esperienza esistenziale ma che si distinguono per una tendenza da parte delle donne di portare nel libro « un’inconscia memoria della tradizione femminile; diaristica, tattile, tessile». Dal felice neologismo nasce il titolo della presente mostra che vede donne alle prese con il genere del libro d’arte e che vengono qui chiamate, appunto, libriste, in qualità di rappresentanti del genere femminile di questa particolare produzione che abbraccia almeno cinquanta anni di storia.

Gli aspetti femminili che pur si possono riscontrare in alcuni dei libri presenti in mostra non sembrano prevalere su un carattere generale che questo tipo di editoria, senza distinzioni, porta con sé. L’esperienza della creatività sembra con il libro d’artista superare le barriere tra creazione al maschile e creatività al femminile (Lista 2004) che almeno dal rinascimento sembra aver distinto la storia dell’arte.
Questa è forse una di quelle rare forme d’arte che si può definire androgina, secondo la ben nota definizione di Virginia Woolf, secondo cui «nell’uomo la parte femminile del cervello deve comunque avere un suo effetto; e anche la donna deve cercare di andare d’accordo con l’uomo che c’è in lei. Forse voleva dire questo Coleridge, quando osservò che una mente superiore è androgina. Ed è appunto quando ha luogo questa fusione che la mente diventa pienamente fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà» (Woolf 1929). Con questo non possiamo eludere il fatto che caratteri maschili e femminili si possano riscontrare anche in questa particolare idea di libro, ma questa forma sembra allontanare, almeno per un po’, dalle domande che ancora dopo tanti anni continuiamo a porci circa le ‘differenze’ tra arte al maschile e arte al femminile, sia dal punto di vista espressivo, sia da quello del riscontro pubblico e economico. E questo va stranamente contro i contenuti a volte fortemente orientati verso la marcatura al femminile di un confine che si trova in alcuni libri presenti anche in questa mostra. Le differenze con la produzione al maschile infatti, quando e se ci sono, vanno al di là delle forme adottate, dei materiali scelti, dei testi. È nel corpus di opere nel suo complesso che vanno cercate, se proprio vogliamo farlo.

Lea Vergine, la curatrice della mostra che strappò finalmente il velo che fino al 1980 aveva tenuta nascosta la parte femminile delle avanguardie artistiche, alla domanda: In che cosa si differenzia l’arte delle donne da quella degli uomini?, rispondeva: «Autoironia, sarcasmo, coraggio e ancora oggi lo si può pensare. E l’uso della memoria» (Vergine 2004).
Nelle opere presenti in mostra ci sembra di riscontrare le stesse qualità. A queste si potrebbe aggiungere anche una buona dose di attenzione alla musica e alla poesia, al ritmo, aspetto questo che sembra presente anche dove non sembra esserci. E poi la presenza del corpo, sottesa a tutte le opere dove viene esposto attraverso fotografie o disegni di mani, schiene, volti, occhi, seni, piedi. Ma il corpo è presente nella manualità delle opere e nella manipolazione dei caratteri tipografici anche se condotta con mezzi meccanici.

Ma l’aspetto che sembra prevalere è quello della memoria. La memoria è dopotutto una parola di genere femminile che appartiene antropologicamente alle donne. Tutto sembra essere orientato verso la trasmissione di una traccia, di un gesto, di un pensiero che nel complesso forma quello che è evidente anche in questo nucleo di opere, una memoria del fare, del percorrere, del rielaborare.
E a proposito di varietas, questi libri sorprendono per la molteplicità che dichiarano. Temi: poesia, racconto, saggio, diario, favola. Supporti: carta da ciclostile, da incisione, fotografica, tipografica, cartone. E poi acetato, spirali metalliche. Stampa: a mano o meccanica. Tecniche: grafiche, calcografiche, dattilografiche, tipografiche, industriali, ad acqua.
Le diverse nazionalità delle artiste presenti dimostrano quanto il linguaggio variegato dell’insieme non conosca confini geografici, ma accomuni pittrici scultrici incisori performer critiche poetesse più famose a quelle meno note, con semplicità e senza clamori.
Non sappiamo rispondere dunque con certezza alle domande poste ma possiamo forse pensare che tutto ciò risponda a una volontà, un desiderio a volte dolorosamente compiuto, dove prevale, su tutto la gioia di scrivere./ Il potere di perpetuare./ La vendetta d’una mano mortale.

Continuità
«C’è continuità tra un libro e l’altro, nonostante la nostra abitudine di giudicarli separatamente» (Woolf 1929). Una collezione è un insieme che riflette scelte e gusti del collezionista. Una collezione di libri al femminile ha un suo carattere specifico, basato prima di tutto su un proprio livello di continuità, non solo perché libri scritti, pensati, immaginati, da donne ma perché tessono, l’uno con l’altro, una misteriosa trama di senso da cercare tra i frammenti di un linguaggio che appartiene, sì, a tutti, ma che può essere più o meno segretamente, acquisito e fatto proprio. Il dialogo che si viene a creare tra i libri al femminile presenti in mostra è avviato dal collezionista milanese Marco Carminati che li ha selezionati tra i molti della sua raccolta.
Cosa spinge un collezionista a mettere in mostra i propri libri e cosa a sceglierne alcuni come rappresentativi di una specifica coniugazione al femminile del genere libro-di-artista?
La prima risposta, spontanea, è stata: Perché le ho trovate. La seconda: Perché i libri di donne hanno una loro anima in quanto le donne si identificano sempre nel loro lavoro. La terza: Perché è una sfida a riconoscere in essi i caratteri femminili.

Esporre i propri libri è un gesto di condivisione e apre a domande, chiede un confronto. Non è facile porre domande e ancor meno, a volte, rispondere. Il margine di dubbio sembra insostenibile. Ma è importante che esistano luoghi, come le biblioteche, dove questo si possa ancora fare.